[...] Le nostre solennità
sono segnate, in larga misura, dalle stagioni
e dai ricordi. Nel sabato i religiosi individuano
la santificazione del tempo, di Dio, dell'esistenza.
"I sabati sono le nostre grandi cattedrali",
afferma Heschel, e spiega: "Il rituale ebraico
può essere qualificato come l'arte delle
forme significate nel tempo, come "architettura
del tempo"... L'essenza del sabato è
assolutamente fuori dello spazio. Per sei giorni
della settimana noi viviamo sotto la tirannia
delle cose dello spazio, il sabato ci mette in
sintonia con la santità del tempo".
"Dal mondo della creazione" passiamo
"alla creazione del mondo". Traducendo
in termini di costume laico, noi privilegiamo
la crescita e di divenire sull'essere, la formazione
rispetto alla forma come entità conclusa.
[...] E' logico che questa concezione del tempo,
così sperimentata nel tempo contrassegna
l'eresia. Gli ebrei sono ebrei in quanto respingono
la staticità delle cose e delle idee, e
credono nel mutamento e nel riscatto.
In arte, nel mondo antico, l'atteggiamento iconoclasta
è un fatto eretico: non dipende soltanto
dalla volontà di non immiserire un principio
irrappresentabile nel suo contenuto, ma anche
dal giudizio sull'inadeguatezza della forma rappresentativa.
Le immagini del mondo antico, specie quelle egizie,
sono statiche. L'ideale greco raffigura l'essere
in senso assoluto, sovrastorico, atemporale, -
non l'uomo nella dinamica del quotidiano, ma il
tipo, anzi il prototipo umano. Quest'arte non
era utilizzabile per comunicare il messaggio ebraico.
La tesi che sottopongo al vostro esame può
essere riassunta in poche parole. L'ebraismo,
in arte, si oppone a tre concezioni: a) al classicismo,
b) all'illuminismo, c) al cubismo analitico.
No al classicismo, perché punta sull'ordine
a priori.
No all'illuminismo, perché propugna idee
universali, assolute e assolutistiche.
No al cubismo, perché astrae dalla materia,
scompone sovrappone ed incastra le forme con un
processo solo in apparenza dinamico, poiché
non riguarda l'autofarsi della forma, ma il montaggio
di forme.
L'ebraismo in arte punta invece sull'anticlassico,
sulla destrutturazione espressionista della forma;
rigetta i feticci ideologici della proporzione
aurea, e celebra la relatività; smentisce
le leggi autoritario del bello, ed opta per l'illegalità
e la sregolatezza del vero.
[...] Ne consegue che, per l'ebraismo, l'arte
non è catartica nel senso mitico ed evasivo.
Anzi, come la scienza, avversa i miti di qualsiasi
natura, trascendenti o immanenti. A livelli diversi,
Einstein e Freud sono dissacratori di miti. Ma
Schönberg non è da meno: dissacra
l'ottava, formula la dodecafonia e poi relativizza
anche questa. Nel campo letterario, Kafka; in
quello visuale, Soutine o Mendelsohn - sostanzialmente,
uno stesso impegno dissacratore e laico, antimitico,
antidolatrico. L'idolo è il vitello d'oro,
l'immane, interminabile, continuamente rinnovatesi
serie di vitelli d'oro, di dogmi, di assiomi,
di verità rivelate, di eroi marmorei e
retorici, di fronte alla quale la storia ebraica
è un plebiscito di NO reiterati con leggendario
rigore, con incredibile tenacia critica e soprattutto
autocritica: un sacerdozio del tempo e dello sviluppo,
del comportamento, quotidiano, prosaico. "L'insegnamento
dell'ebraismo", dice Heschel in un passo
veramente memorabile, "consiste nella teologia
dell'azione comune. La Bibbia sottolinea che l'interesse
di Dio è per il vivere di ogni giorno,
per le consuetudini della vita. La sfida non sta
nell'organizzare grandi sistemi dimostrativi,
ma nel mondo con cui gestiamo il luogo comune".
Per questo, il nostro santuario può essere
una tenda sotto la volta celeste, un'arca "mobile"
che segue il nostro itinerario: è un tempio
che si chiama scuola perché vi si insegna
la storia, e può essere la scuola peripatetica
del nostro errare, in quanto la storia è
nel Libro che è in noi.
Naturalmente, tra religione ed arte si avverte
un distacco. Per un rabbi come Alexandre Safran,
"il tempo ebraico è un tempo sabbatico"
e l'ebreo "non deve contarlo come gli altri
uomini. Lo computa in modo diverso, per non cadere,
in conseguenza di un facile calcolo o di una mancanza
di calcolo, nello sfrenato desiderio di vivere,
o nell'angoscia della morte, o nella disinvoltura
verso la quale spinge l'apatia dell'esistenza".
Per l'artista è un'altra cosa. La sua eresia
è gremita di affanni esistenziali, il tempo
è una condizione sfuggente e struggente,
talora un appartenere al passato e al futuro senza
riuscire ad ancorarsi nel presente. Il tempo,
per l'artista, non è il tempo sabbatico,
ma quello dell'angoscia, se non della morte, certo
della vita. Per rabbi Simeone, "l'eternità
era conquistata da coloro che barattano lo spazio
con il tempo" e, "anziché riempire
lo spazio con costruzioni, ponti e strade",
capiscono che "la soluzione del problema
più che nella geometria e nell'ingegneria",
sta "nello studio e nella preghiera".
Per l'artista, è completamente diverso:
non baratta lo spazio con il tempo, ma temporalizza
lo spazio. Sotto questo profilo, l'artista è
più ebreo del rabbi: somiglia a Dio che,
dividendo il tempo della creazione in sette giorni,
l'ha posta in "intimo rapporto con lo spazio".
Il vitello d'ora è ovunque: anche nel tempo
in astratto. Ma l'artista, incerandolo nella esperienza
spaziale, lo rende concreto ed umano.
[...] In Kafka, di cui cade quest'anno il cinquantenario
della morte, esplode il contrasto tra il condizionamento
spaziale dell'uomo e il tempo della sua anima
alienata. La barriera è incolmabile, porta
al mostruoso, all'assurdo, ad una negatività
tanto più desolata in quanto l'ebreo non
ne ha il gusto e il compiacimento romantico, non
può rassegnarsi, antropologicamente ed
intellettualmente, ad accettarla. Molti racconti
di Kafka, come ricorderete, cominciano con un
risveglio. Un risveglio da sogni inquieti, che
non è presa di contatto con la realtà
ma, all'inverso, incontro spaventosamente glaciale
con l'irrealtà della condizione umana.
Appena si sveglia, l'uomo è già
sotto accusa, processato non si sa per quali colpe,
in attesa di una condanna emessa non si sa da
quali giudici, in un palazzo non si sa quale e
di quale giustizia. Un agguato totale, un mondo
incomprensibile, folle ma efferatamente organizzato
secondo ingranaggi efficienti, di fronte ai quali
siamo inermi e disumanati, camminiamo come automi
appena redenti da un'ansia indescrivibile, allucinante.
Se ci adeguiamo, se quest'ansia ci abbandona,
è la metamorfosi, lo spazio vince sul tempo,
l'uomo parassita si muta davvero in un insetto
repellente ed immondo; il processo si scioglie
solo perché l'accusato è annientato.
Risveglio quindi doloroso e infecondo, perché
nello spazio e nelle cose non riusciamo a riconoscerci.
Kafka visita, ad esempio, il ghetto risanato,
lo guarda senza percepirlo, poiché sulla
nuova configurazione spaziale sovrappone il tempo
della memoria: "Dentro di noi vivono ancora
gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre
cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose
e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie
vie della città ricostruita, ma i nostri
passi e gli sguardi sono incerti, dentro tremiamo
ancora come nelle vecchie strade della miseria.
Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento
effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico
dentro di noi è più reale della
nuova città igienica intorno a noi. Svegli,
camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di
tempi passati".
Il mondo di Chagall è solo in apparenza
antitetico a quello di Kafka. In effetti, è
lo stesso mondo, dove però l'assurdo si
tramuta in fiaba. Anche per Chagall l'uomo vive
tra due sogni parimenti intollerabili: quello
dello spazio, del villaggio ebraico di baracche,
dei pogroms, dell'isolamento e dell'odio; e quello
del tempo, dei cieli stravolti e disastrati. L'uomo
non può vivere né in terra né
in cielo, ma con la fantasia degli chassidim può
provvisoriamente occupare una zona intermedia,
subito sopra le tristi catapecchie, subito sotto
il cielo tempestoso. In questa zona immaginaria
e neutra, si vince la gravità della terra
e il peso del cielo: tutto è armonia perché
vis i realizza l'assurdo, gli asini e i violini,
gli orologi a pendolo e gli sposi si librano trascinati
dal vento, larve estranee ormai alla vita e alla
morte. Se questa zona mediatrice in cui s'incastrano
gli opposti sogni viene a mancare, se cioè
ci si risveglia, allora abbiamo il quadro "Le
porte del cimitero" dove lo squasso del cielo
fonde con quello della terra. Se manca la trasposizione
in fiaba, l'intervallo di Chagall diviene quello
kafkiano tra l'imputazione e la sentenza o tra
la condanna e la esecuzione.
[...] Heschel riconosceva che "vivere rettamente
è come un'opera d'arte, il prodotto di
una visione e di una lotta con situazione concrete".
L'arte non è che la vita in estrema tensione,
e Max Brod diceva che "vivere si può
soltanto in grazia di una tensione quasi sovrumana".
L'ebraismo depura questa tensione da ogni connotato
idolatrico e falso-eroico, la piega al quotidiano.
Ma il quotidiano esige una vigilanza continua,
e un continuo rinnovamento, insomma una coscienza
temporalizzata della storia e dei costumi. "La
conoscenza della verità da sola non basta...",
scrive Einstein, "E' come una statua di marmo
che si erge nel deserto ed è sotto la continua
minaccia di venire seppellita dalla sabbia. Gli
operai di servizio debbono essere sempre al lavoro
perché la statua possa durevolmente risplendere
al sole". E' strano che uno scienziato ebreo
assimili la verità ad una statua, anziché
ad un libro. Ma tant'è. Anche il Libro
è sotto la continua minaccia di venir seppellito
dalla sabbia idolatria. Per questo voi, noi siamo
gli operai di servizio.
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