Supponiamo che, per quanto riguarda gli ebrei,
il problema è particolarmente sentito anche
se non sempre portato a livello di una chiara
consapevolezza. E questo, per due motivi. Il primo
è di carattere generale: c'è differenza
fra una produzione di artisti ebrei e una arte
"ebraica"? Questa domanda sembra echeggiare
a tal punto quella relativa alla differenza fra
lo "Stato ebraico" e lo "Stato
degli ebrei" da poter suggerire che essa
derivi da una vera e propria ossessione ebraica
(o degli ebrei?). Eppure è una domanda
giustificata per un popolo disperso, fortemente
sottoposto, più che a influenze culturali,
a una vera e propria pressione, a volte cortese,
più spesso più o meno violenta,
volta a denaturarlo, a fargli dimenticare la propria
identità e a sposare l'identità
della maggioranza. E' questa violenza storica
che trasforma a priori la potenziale arte ebraica
nella pura e semplice produzione degli artisti
ebrei.
Il secondo motivo va individuato nel cosiddetto
"aniconismo ebraico", che significa
la proibizione delle immagini che deriverebbe
dal secondo dei Dieci Comandamenti. In realtà,
una attenta lettura di Esodo 20, 4-6 e di Deuteronomio
5, 8-10 permette due interpretazioni alternative.
La prima escluderebbe la raffigurazione di qualsiasi
cosa, comprese le piante e la natura morta. Il
che non ha mai avuto seguito.
La seconda non proibirebbe tanto le immagini quanto
la loro adorazione idolatrica. Certo, a scopo
preventivo e nel tradizionale spirito di fare
un seyag, una siepe alla Torà, è
più pratico e più sicuro evitare
le immagini tout court.
Ma questo, nei fatti, non è mai accaduto.
Basti pensare alle nostre belle Haggadot di Pesach,
a numerose ketubbot matrimoniali riccamente illustrate,
ma anche alle Sinagoghe come quella di Bet Alfa
o come la sua più famosa sorella maggiore
di Dura- Europos in Mesopotamia.
Se dunque l'arte figurativa, fino a tempi molto
vicini a noi, non ha avuto fra noi ebrei una sorte
particolarmente gloriosa, ciò deve essere
dovuto ad altri motivi. A mio modesto parere,
non si tratta tanto di un rifiuto o almeno di
una sottovalutazione delle arti plastiche quanto
di una eccezionale esaltazione della comunicazione
verbale e della narrazione.
Mi piace citare la storia chassidica secondo la
quale il Besht, fondatore di questo movimento,
quando voleva chiedere una grazia al Signore,
si isolava in un posto del bosco che lui solo
conosceva, accendeva un fuoco che lui solo sapeva
accendere, formulava una preghiera che solo lui
conosceva, e allora la sua preghiera veniva esaudita.
Generazione dopo generazione tutti i dettagli
della cerimonia furono dimenticati. Ma di tutto
questo si poteva ancora narrare. E tanto bastava
perché la preghiera venisse ancora esaudita.
Sulla narrazione sorgono ancora due problemi specifici.
Il primo è: di che cosa si narra e il secondo:
come si narra.
la narrazione ebraica, da distinguersi dalla letteratura
normativa ebraica, si permette una libertà
di opinione, senza alcuna censura, che, fino ad
oggi, non è stata abbastanza considerata.
Non parliamo di un libro quale quello di Giobbe,
che si permette di mettere in discussione la stessa
Provvidenza divina (e viene canonizzato!), ma,
per restare nella Bibbia, pensiamo ad Abramo,
che si permette di "fare la morale"
al Signore Iddio, ammonendolo (ki-vyakhol): "Forse
che il Giudice di tutta la Terra farà un'ingiustizia?
(Genesi 18,25).
Questo significa soprattutto che la narrazione
ebraica affonda le sue radici in un terreno di
antica e profonda sofferenza umana (ebraica, nella
sua immediatezza e prima esperienza, ma umana
nella sua descrizione e nella sua generalizzazione).
E' questa esperienza che autorizza a rimuovere
vincoli giuridici e umani alla totale libertà
di espressione.
Ma questo fa certamente paura alle strutture di
potere consolidate. E fa passare l'ebreo per l'eterno
ribelle, irrequieto, critico spietato anche quando
fa filosofia, scienza teorica, psicologia. Un
rivoluzionario.
Come si narra?
Nella Bibbia, la forma di narrazione più
usata è quella del mashal, che non è
semplicemente l'apologo o la metafora. Pensiamo
a quel bellissimo poema d'amore che è il
"Cantico dei Cantici", che non è
una metafora dell'amore divino, come vorrebbero
alcune pie letture, ma piuttosto l'esaltazione
dell'anelito di una giovane adolescente a uno
squisito amore terreno. Questo è già
di per sé, "divino".
Certo, ci possono essere anche altre letture,
anche aride letture filologiche, con slittamenti
di senso e con analogie forzate.
Forse è proprio il modo ebraico di narrare
a stimolare il lettore che in ultima analisi contribuirà
a dare il suo significato al testo. A meno che
il testo stesso non venga recitato, forse cantato,
danzato, fornendo strumenti interpretativi aggiunti
e molto forti.
Come si vede, la tradizione conta molto in questa
presentazione della narrazione ebraica. E non
è un caso che si debba citare il primo
Nobel ebreo per la letteratura. S.Y. Agnon, che,
sul terreno di questa tradizione, rinnovandone
il linguaggio, ha saputo narrare di tematiche
moderne e attuali.
Sorge qui il problema degli scrittori ebrei moderni
e contemporanei, dei quali non si farà
l'elenco. Alla luce di quanto fin qui esposto,
sono ebrei scrittori o sono veri e propri scrittori
ebrei?
Deludendovi, credo di non essere in grado di rispondere
a questa domanda. Ma poi, è una domanda
tanto importante?
Pensiamo a Primo Levi, che ha scritto in lingua
italiana. Ma è proprio tanto importante?
L'esperienza drammatica dalla quale è sorta
la sua vena letteraria di primo ordine, era o
non era ebraica? E allo stesso tempo, era o non
era universale?
Il fatto stesso che io ponga il quesito sta a
dimostrare la possibilità di risposte affermative.
Da parte mia penso che in tutti gli Autori, che
ne siano consapevoli o meno, che ne siano gratificati
o meno, che si chiamino Primo Levi o Giorgio Bassani,
Alberto Pincherle (Moravia) o Umberto Saba, la
formula schematica non sia praticabile.
E' compito nostro, dei lettori, leggerli senza
prevenzioni e indagarli, cercare in quale punto
si era stabilito il loro personale equilibrio
fra le opposte tendenze, fra il particolarismo
e l'universalismo; e soprattutto dare la nostra
valutazione di quanto il loro messaggio parli
a noi, uomini del XXI secolo.
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